Premessa: per evitare di riempire una pagina di asterischi atti ad evitare di riferirmi a un genere piuttosto che all’altro, ho scelto di parlare ipoteticamente ad una mamma, ma questo papello è ovviamente rivolto anche alla popolazione di genere maschile: papà, nonni, zii, amici di famiglia. Non vogliatemene.

Seconda premessa: non sono un medico, non sono neanche una qualsivoglia figura professionale che si occupa di infanzia, di genitorialità, di psiche umana. Sono una mamma (e porca miseria se è poco), sono stata una FCNM e da 4 anni ho una FCNM.

 

Cosa è un Figlio Che Non Mangia (FCNM)

E’ un bambino che mangia poco e pochissime varietà di cibo.

Ma “poco” cosa significa? Appunto, è una valutazione relativa, già qui dovresti iniziare a farti delle domande. Diciamo che vuol dire “poco” rispetto alla tua sensibilità, alla media dei bambini, a quello che ti hanno insegnato da piccola, infine a quello che la società ritiene siano quantità e qualità di cibo che un bambino deve mangiare. Tenendo presente che la società ha particolarmente in odio chi mangia poco, tranne poi volerci tutti magrissimi, le domande da farsi aumentano e diventa ancora più difficile capire se quel poco sia abbastanza.

Stabilire quale sia la quantità di cibo adatta ad un bambino così come stabilire quanto debba pesare è un affare che spetta ad un professionista, ma vaglielo a spiegare alla nonna, alla suocera, alla vicina ed in generale a tutte quelle persone che si sentono immancabilmente in diritto di farti sentire inadeguata che non esiste un parametro univoco di giudizio ma ogni bimbo è a sé.

In generale comunque è ovvio che se tuo figlio è vivo e non è attaccato ad una macchina è perché tuo figlio mangia. Ma il fatto che sia vivo non vuol dire 1) che tu sia tranquilla, 2) che si stia alimentando correttamente. Quest’ultimo punto non è di secondaria importanza ma non essendo di mia competenza non è il fulcro del presente papello.

Togliendo i casi di malnutrizione da terzo mondo e l’obesità da primo mondo, i nostri figli sono generalmente normali in un range estremamente variabile di peso, che di sicuro non è l’unico parametro da valutare nell’ambito della salute, MA se tu pensi che tuo figlio non mangi abbastanza perché la sua pratica abituale è quella di rifiutare, conta quello che tu percepisci e come lo vivi. E questo papello ergo ti riguarda.

Quindi tutte fisime di genitori ansiosi? Io credo di no, credo che alcuni bambini siano oggettivamente in difficoltà quando affrontano il cambiamento nell’alimentazione o in quella fase in cui crescono consapevolezza e libero arbitrio e diminuisce la fame.

Meccanica del FCNM

Tutto è iniziato con il latte e nel mentre ti sei letta e hai ascoltato l’universo mondo dei pareri: dal pediatra di grido all’amica madre new age, all’amica madre degenere, passando per il parentame, il vicinato, internet, la cassiera del supermercato e svariati orientamenti di pedagogia moderna. Certa di avere capito ogni cosa, hai fissato quindi alcuni punti saldi e sicura come un pastore maremmano dietro il suo gregge hai iniziato a svezzare e quasi certamente fino all’anno e mezzo – due anni tutto bene. Poi ok si sa dopo i due anni mangiano meno. Però tra mangiare meno e non toccare quasi cibo c’è una differenza abissale e lì sale l’angoscia.

La teoria che regna sovrana in questi ultimi anni dice che il bambino si autoregola, che bisogna fidarsi di lui, che il suo corpo sa come e quanto alimentarsi e di lasciarlo fare, o quantomeno non farsi venire una crisi isterica quando non mangia secondo i canoni familiari. Dalla mia modestissima esperienza (mia di altre mamme di FCNM) qualche volta questo fighissimo istinto di autoregolazione va a farsi benedire, perché qualcosa turba il bambino, che non si fida, non sperimenta e la paura vince la fame.

Il nostro istinto primario è nutrire, non riuscire a farlo è un dolore acuto e profondo, una sofferenza che si perpetua almeno due volte al giorno e ti rovina il rapporto con tuo figlio. Non puoi capirlo se non ci passi ed io non lo auguro al peggior nemico, tanto per intenderci. Si scivola facilmente nella nevrosi, in situazioni che poi ci vogliono anni per recuperare. In questi casi ci vorrebbe più sostegno alla famiglia, ma anche trovarsi a parlare con chi condivide lo stesso problema vi assicuro è un sollievo.

Una volta, mia figlia aveva un anno e mezzo, lessi un post su un gruppo Facebook dedicato allo svezzamento, narrava di un bimbo che si nutriva solo di cracker, biscotti e gelato. E basta. Lessi tutti i numerosi commenti, mi apparve un mondo schizofrenico popolato da mangiatori di schifezze industriali, da mamme disperate dal ridursi della dieta da variegata e onnivora a solo pizza e wurstel, da bambini che accettavano solo latte e uovo. Le soluzioni proposte variavano dalla composizione arcimboldiana del piatto a lasciargli affrescare la parete di cucina con il purè perché il bambino deve necessariamente attraversare la fase del gioco col cibo. Percepii l’angoscia che a breve avrei sperimentato anche io, quando pochi mesi dopo mia figlia passò da latte e pappa, a latte uovo e yogurt. E omogeneizzato di frutta.

E non c’era verso che assaggiasse nulla delle elaborate e gustosissime pietanze che preparavo. E neanche delle altrettanto gustose schifezze industriali. Niente, nada, nisba. Finita la pacchia dello scodellone di pappe scodellate.

Una volta l’ho vista tremendamente combattuta se mangiare o no una deliziosa patatina appena sfornata: mentre a me scendeva l’acquolina lei se la infilava in bocca, senza chiuderla, e poi la tirava fuori, la guardava un po’ e riprovava, cercando di vincere il timore. Assurdo avere paura di una patata arrosto, eppure per mia figlia era così, terrorizzata dai sapori ma soprattutto dalle consistenze. L’ho capito solo molto dopo che le dava fastidio il cibo croccante sotto i denti, la consistenza asciutta della carne, ma anche tutto ciò che era di colore verde, di colore marron, dei “pezzettini”, delle forme non perfettamente geometriche. E per la cronaca alla fine la patatina arrosto non l’aveva mangiata, me le ero mangiate tutti io…

Vita col FCNM

L’angoscia che ti prende quando tuo figlio non mangia la puoi capire solo quando la provi. Perché tu nella tua testa estrapoli la situazione e la prolunghi a SEMPRE; ovvero tiri una linea dritta che è l’andamento di quel momento nel tempo e te lo figuri immutabile fino a immaginartelo deperire e morire senza riuscire a fare nulla. Una cosetta leggera.

Poi ci sono quelle brevi parentesi, quelle degli scatti di crescita, in cui mangia-di-tutto (va beh non proprio) e tu sei lì che stappi la bottiglia di champagne e intravedi l’uscita dal tunnel, ma immancabilmente terminano con pesanti regressioni a pasta-in-bianco-e-basta o di nuovo solo latte.

La sensazione di impotenza, perché non li puoi obbligare a mettersi qualcosa in bocca se non vogliono, e la conseguente rabbia, dopo avere passato ore in cucina, inquinano immancabilmente la vita quotidiana pesando su ogni membro della famiglia e trasformando in un incubo le ore del pasto.

Io a volte le mettevo il piatto davanti e poi uscivo dalla cucina pur di non assistere al suo rifiuto; lei qualunque fosse il mio atteggiamento percepiva la mia ansia, leggendo tutta la mia involontaria mimica non verbale. Andò meglio al nido, quando in compagnia di altri bambini, molto probabilmente per imitazione, si lasciò finalmente andare alla scoperta del cibo. In quei pochi mesi di latte e yogurt, tra la fine delle pappe e l’inizio dell’asilo, si ammalò (lei che non si ammalava mai) e non le passava. Due settimane con la febbre, ad agosto, in cui toccammo il fondo.

La risalita fu lenta ma costante, ora, a quattro anni, mangia almeno una decina di cose, ma la frutta fresca ancora no, la vuole omogenizzata, e solo all’asilo accetta dalla maestra un pezzettino di frutta fresca. In pratica è diventata una FCNM parziale, cioè all’asilo mangia ma se le ripropongo lo stesso piatto uguale a casa lo rifiuta (e quando dico uguale significa uguale, ho contatti sotterranei con la cuoca che mi passa ricetta e foto).

Pertanto, unendo i puntini, l’unica cosa che ho capito in tutto ciò è che il cibo è una questione quasi esclusivamente di relazione e molto marginalmente di olfatto sensibile, che sbattersi in cucina sfornando delizie prelibate non sempre funziona, che La Soluzione è “stai serena e usa il buon senso, crescerà”.

L’unico consiglio applicabile che mi è capitato di leggere nei super libri è che per affermare con certezza che qualcosa non gli piace gliela devi proporre una decina di volte almeno, se no non hai il permesso di piangerti addosso.

Purtroppo nei manuali è sempre tutto chiaro però la fattispecie di tuo figlio non è menzionata MAI.

Quindi quando butta davvero male non stressarti, ma organizzati e fai fare a qualcun altro: il papà, i nonni, gli zii, l’asilo. Accettare di mettersi in bocca qualcosa che non si conosce, gesto assai intimo se ci riflettiamo un secondo, dipende moltissimo da chi ce lo propone. Il cibo è un fatto di relazione.

Nel mentre uscite più spesso a farvi un aperitivo, la leggerezza aiuta.

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Aline Nowé è nata a Cagliari nel 1973 da papà belga e mamma sarda, è laureata in Ingegneria Elettrica, con master in Project Management nelle Costruzioni, e ha lavorato come ingegnere fino al 2014, anno in cui è diventata mamma. Da allora si dedica con passione alla realizzazione di un prototipo di dispositivo interamente biodegradabile, atto alla trasformazione di materiali compostabili in biocarburante (altrimenti noto come Figlia) e a progettare servizi utili per i neo genitori. E’ cofondatrice dell’Associazione Pannolini Lavabili Sardegna.
Co-fondatrice de Il Club dei Genitori, segue le rubriche Pannolini Lavabili, Una mamma portatrice, Cine Club e L’insostenibile leggerezza di una mamma.