Prendo spunto da un episodio di cronaca nera, ossia l’uccisione, da parte di una donna detenuta nel Carcere di Rebibbia, dei suoi due bambini, una neonata ed un bimbo di diciotto mesi. Con grande lucidità, Alice, 33 anni, di nazionalità tedesca, così s’è dichiarata al suo legale: “… i giudici del Riesame dovevano discutere della mia posizione. I miei figli intanto li ho liberati”.

Questo ci dice implicitamente come la patologia nelle sue tante forme s’imparenta spesso con la comune sofferenza umana.

Le parole pronunciate da Jules Michelet nel 1959, a proposito del destino femminile, rilette alla luce dei fatti di qui sopra, gettano un significato sinistro sul concetto di maternità odierno.

“Deve amare e partorire, è questo il suo sacro potere. Fin dalla culla la donna è madre, pazza di maternità.” Nulla qui lascia intendere che la passione materna, l’ardore da sempre attribuito alla genitrice potrebbe partorie odio anzichè amore, o follia al posto di salute.

“Maternità” di Guido Crepax, disegno a carboncino del 1975

 

Succede però che la richiesta di sacrificio totale, di dedizione univoca all’altro ad un certo momento chiede pegno, attraverso l’autodistruzione. La psicoanalisi ha voluto considerare la coppia madre-bambino “esente da ambivalenze”, a tal punto da risultare composta solo di amore, tenerezza, cuore. Cosicché la madre che commette infanticidio, la “Medea”, rimane sempre un fatto sorprendente che finisce con l’accentrare su di sé fantasie, perizie scientifiche e piani governativi.

“Non uccidere” è uno tra i dieci comandamenti  impossibile da sovvertire. E l’uccisione di un figlio scuote le coscienze al punto da dover etichettare in maniera rassicurante l’infanticidio come “malatta mentale”. Padri e madri che uccidono soffrono di “legami invasi ed ambivalenti che promettono aria e poi strangolano” (Lea Melandri), dove la famiglia protegge e allo stesso tempo limita senza ragione. Così ci si ritrova a cercare “sollievo”, anche se per un attimo, o tentare di eliminazione un conflitto, un pensiero intollerabile, l’impulso ad aprirsi una via d’uscita ad ogni costo, passando anche sul corpo del proprio figlio, considerato parte di sè.

Al microfono di un’inviata de “La Repubblica” di molti anni fa (era il 30 maggio del 2002), un’infermiera dell’Ospedale Psichiatrico di Castiglione delle Stiviere, dove vengono internate le madri che hanno commesso infanticidio, spiegava quanto fosse importante per queste donne, sentirsi ancora parte della collettività, dove espiare una colpa, in carcere piuttosto che venire esiliate presso una parvenza di “casa”, sotto protezione, fosse per loro un modo per non “diventare trasparenti”, e mai più viste.

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Francesca Giovanna Camìsa Parenzan nasce a Milano nel 1973 da genitori pugliesi immigrati in Piemonte, è laureata in Psicologia di Comunità (V.O.), Psicologa abilitata presso l’Ordine Psicologi Piemonte e si è specializzata in qualità di Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico e gruppoanalitico. Negli ultimi due anni ha intrapreso un percorso inedito di specializzazione in qualità di Esperto in Psicologia e Psicopatologia Perinatale, insieme a Gisella Congia, presso la Società Marcé Italiana per la Salute Mentale Perinatale.
È diventata mamma di Lena Eli nel 2012, momento a partire dal quale il suo interesse professionale è virato sempre più temi che riguardano il genere femminile a 360 gradi, inclusa la genitorialità nei suoi aspetti più complessi e talvolta incompresi.