La pazza gioia

Le imperfezioni della vita, il tumulto di gioie e dolori, di violenza, di sbagli e redenzioni raccontano della passione per la vita, quella che solo alcuni sembrano potersi permettere fino in fondo perchè matti, dato che solo i matti superano certi limiti, o solo chi li supera viene considerato tale.

Ciascuno di noi convive con il “suo filo sottile” chiamato lucidità che potrebbe, prima o poi spezzarsi e renderci instabili. È quello che ci racconta Paolo Virzì con il suo film “La pazza gioia”. Sullo sfondo di una tenuta agricola, diventata il set di Villa Biondi, comunità terapeutica abitata da donne con problemi psichici, si respira aria fresca e carica di desiderio, quella per la vita, in contrasto al fuori, il mondo esterno intollerante alle diversità e alle “stranezze”. Qui, due donne che hanno cercato disperatamente per tutta la vita l’amore e che ancora nutrono speranza lo ritrovano nell’amicizia, nell’aiuto reciproco e nella compensazione, senza nascondere il lato oscuro di ciascuna, persino quello più sgradevole e orribile. Non ci sono qui vittime né matte diventate angeli, ma persone permeabili al dolore senza possedere la necessaria forza per opporvisi.

Questa è anche la storia di Donatella Morelli/Micaela Ramazzotti, affidata a Villa Biondi dopo una lunga storia di depressione e dopo aver tentato il suicidio e il figlicidio nei confronti del suo piccolo Elia. Donatella lo racconta in una scena clou del film all’altra protagonista, Beatrice/Valeria Bruni Tedeschi, nobildonna caduta in disgrazia a causa di un disturbo bipolare che le ha segnato la vita.

“Sto troppo male”, racconta Donatella, “Dice .. ti levo il bimbo. I Servizi Sociali per l’idoneità genitoriale. La mattina vengono alle 8:00, c’è anche i Carabinieri. Lui dormiva piccino, nemmeno me lo fanno cambiare. Lo mettono in una casa famiglia solo solo, per un po’ di tempo, dice, Te aspetta, dobbiamo decidere” – “Io piango tutto il giorno ma aspetto”. – “Piangi troppo, dicono, depressione maggiore.” – “Datemelo no? Ora non piango tu”. – “No, te hai sempre pianto troppo. Piangevi a scuola … .” – “Tutto sanno. C’ho questa depressione maggiore, va bene, allora curatemi! Sono nata triste! Datemi Elia. Che mi curate levandomelo?!”.

La depressione maggiore, ed in particolare la depressione materna così come la malattia psichica nella sua interezza è ancora un tema scottante nel nostro paese, dove la cultura cattolica ed una corrente di pensiero antagonista hanno fatto di tutto per negare la psicopatologia e la sua cura. Non dimentichiamoci però che siamo il paese di Franco Basaglia, un elemento di cui andare fieri. La malattia mentale possiede anche una sua umanità, necessaria, di cui abbiamo bisogno. Si noti come nel film, all’interno di Villa Biondi ci siano sia attrici che pazienti vere mescolate, dove non è per niente facile capire quali siano le une e quali le altre.

Il racconto di Donatella prosegue. Ottiene di vedere il figlio presso la Casa Famiglia, ci va tutti i gioni, ci sta tutto il giorno, lo accudisce fino a che le danno il permesso di uscire sola con lui. Qui, ahimè la dura realtà l’attende: la felicità e l’orgoglio di una madre a passeggio col suo bimbo, “E’ mio” dice ai passanti, “L’ho fatto io, è mio figlio”, si scontra con la vita, il padre biologico che rifiuterà entrambe, madre e figlio cacciandoli via, dopo essere inciampato nei due passeggiando per il carnevale di Viareggio. Tutte le ferite, le insicurezze, l’angoscia avranno il sopravvento su Donatella. Scossa, salirà su un bus fino ad arrivare al lungo mare, dove deciderà di gettarvisi insieme al piccolo Elia.

“Penso adesso me lo levano, me lo levano e non lo vedo mai più. Penso a quanto piangerà, a quanto piangerò, penso a quanto è crudele la gente. E basta, basta di stare sempre male basta di stare sempre male! Voglio stare bene vogliamo stare bene, non voglio morire ma stare insieme sempre.”

“Dopo diranno tentato omicidio e suicidio . Che parole assurde! Non hanno capito nulla! Mentre andiamo giù siamo felici”.

Una scena questa, che si ripete nella mente di Donatella giorno dopo giorno identica: parapetto, Elia, tuffo, acqua, vuoto, figlio, acqua.

La Dott.ssa Merzagora Besos ci spiega che “significativo è il fatto che l’annegamento sia una tecnica usata esclusivamente dalla madre come nel tentativo di fare tornare il bimbo nell’acqua come se fosse ancora nel grembo materno.” E ancora ci spiega la Dottoressa, “nella madre figlicida, che è poi spesso neonaticida, vi è una perversione dell’attaccamento/separazione, un legame simbiotico che non si riesce a superare nella contemplazione del figlio come altro da sé. Un dato rilevante è che queste donne, con evidenti disturbi mentali, nella loro vita hanno dovuto affrontare momenti fortemente stressanti e lo hanno fatto con scarse risorse personali e mancanza di supporto ambientale.”

Cos’è allora la pazza gioia? Il coraggio e il desiderio di entrare nelle proprie ferite, nonostante le difficoltà ed il dolore perchè trascinarsi nell’indifferenza è peggio e non serve a niente, serve invece uno scossone, delle volte, un atto di follia come guardarsi dentro e indietro. Viviamo in un mondo dai confini incerti, tra pazzia e normalità dove tutto può essere ribaltato, le proporzioni di questo mondo, per alcuni troppo stretto  per altri più grande, dove a questo punto ci possiamo stare tutti.

 

Bibliografia

  1. Bramante, Fare e disfare. Dall’amore alla distruttività. Il figlicidio materno., 31/10/2005, Aracne Editore, Roma.

La pazza gioia, regia di Paolo Virzì.

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Francesca Giovanna Camìsa Parenzan nasce a Milano nel 1973 da genitori pugliesi immigrati in Piemonte, è laureata in Psicologia di Comunità (V.O.), Psicologa abilitata presso l’Ordine Psicologi Piemonte e si è specializzata in qualità di Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico e gruppoanalitico. Negli ultimi due anni ha intrapreso un percorso inedito di specializzazione in qualità di Esperto in Psicologia e Psicopatologia Perinatale, insieme a Gisella Congia, presso la Società Marcé Italiana per la Salute Mentale Perinatale.
È diventata mamma di Lena Eli nel 2012, momento a partire dal quale il suo interesse professionale è virato sempre più temi che riguardano il genere femminile a 360 gradi, inclusa la genitorialità nei suoi aspetti più complessi e talvolta incompresi.