Primo giorno

E’ probabile che il tuo ritorno a casa sia stato condito con incalcolabili chiamate di parenti e amici che impossibilitati a farti visita in ospedale ti stanno bombardando la linea telefonica nemmeno fossi la Minetti intercettata ai tempi del Bunga Bunga.

“sì, sì tutto bene”

“come mi sento…benissimo!”

“sono estasiata”

“il bimbo adesso dorme. Vedessi che smorfiette che mi fa”

“tra poco lo allatto”

Questo più o meno l’incipit delle conversazioni ricoperte di doverosa prassineomammesca. E tu hai ancora l’energia e l’adrenalina dell’inizio che ti fa ben sperare di essere la mamma della famiglia Bradford, dei Brady Bunch con i loro sorrisi stereotipati, degli Ingalls che se ne stanno spensierati nella  casetta immersa tra il verde della prateria. Il tuo stato vitale al momento posizionato una spanna sopra la via lattea  ti farebbe sopportare  il pressing telefonico anche una settimana di fila correndo pure il rischio di sciogliere incudine e martelletto.

Quando si dice che “un figlio ti da un input in più”.”

Secondo giorno

Ed ecco i nodini venire al pettine.

La tua prima notte è trascorsa a effetto singhiozzo, hai la sensazione di avere dormito sì e no una trentina di minuti e ti senti come se una schiacciasassi ti fosse passata sulla schiena ripetutamente ingranando più volte la retromarcia. Ti senti spossata al punto che l’idea di andare in bagno per darti una rinfrescata ti sembra più difficile che farti a nuoto lo stretto della manica a delfino e il pensiero di toglierti il pigiama più impegnativo di levare un corsetto del settecento.

Colui che chiami  “dolce fagotto” non ti permette di pensare ad altro che tirare fuori il seno. Pensi di stare traballando tra l’entità  di una maggiorata stressata e quella di una a cui inconsapevolmente è stato inserito un distributore automatico di latte sotto pelle.

La casa comincia a richiedere le tue vecchie attenzioni (non ricordi più la tua mania ossessiva di pettinare anche le frange del tappeto persiano? O di rinnovare il vaso regalo di nozze della tua madrina con fiori stagionali? E poi la bacheca in sughero appesa in cucina che puntigliosamente aggiornavi con gli appuntamenti della settimana: lunedì yoga, martedì corso di archeologia, mercoledì happy hour, giovedì comitato di lettura, venerdì cena con amiche, sabato e domenica ‘sticazzi?!) e ti stai accorgendo quanto il tuo bambino abbia in mano il potere di tenere soggiogato il tuo tempo. E le frange del tuo tappeto.

In questo preciso istante devi sfruttare ogni minuto e ora della giornata in modo ottimale per preservare l’ equilibrio gravitazionale del delicato e fragile universo di tuo figlio evitando che un big bang inverso lo faccia collassare risucchiando anche ciò che rimane del tuo mondo.

Già.

Universo bambinocentrico.

Il bambino al centro di tutto.

E la mamma che gli gravita incessantemente intorno come un satellite a cui nessuno da molta importanza malgrado senza la sua presenza tutto sarebbe molto più difficile e sofferto.

Insomma alla mamma si da sempre un senso relativo.

Una donna che diventa mamma è secondo una visione generica come un replicante programmato per figliare, accudire, crescere, educare.

A una donna che diventa mamma non è permesso lamentarsi per stanchezza, fatiche quotidiane, siano esse fisiche e soprattutto psicologiche. Non è permesso perché non contemplato nell’immaginario e cultura collettivi dell’umanità  intera.

E poi se tiri in ballo le “fatiche psicologiche di una mamma”  molti penserebbero si tratti dell’ultimo romanzo della Boralevi o della nuova rubrica televisiva che fa audience con psicodrammi in diretta.

A me piacerebbe risalire alle origini di queste convinzioni coltivate dall’uomo (in senso più generico), di questo diktat sulla cui natura mi sto dedicando con grande impegno e dedizione. Che poi mi rendo perfettamente conto di stare affrontando un argomento così sacro e intoccabile  che a confronto Roberto Saviano con il suo Gomorra sembra abbia messo in discussione la lavorazione della mozzarella di bufala nel casalese.

Io comunque  credo di esserci arrivata con  una mia personalissima teoria un po’ post femminista e un po’ canzonatoria verso noi stesse.

Così tutto cominciò…

“C’erano una volta un uomo e una donna che vivevano in una grande caverna. L’uomo e la donna non avendo a disposizione abiti veri e propri (e non sapendo nemmeno cosa fossero degli abiti) ricoprivano le loro nudità  con grandi foglie offerte dalla lussureggiante foresta.

La donna per sua natura amava raccogliere fiori per abbellire la caverna fredda e spoglia. L’uomo per sua natura amava svaccarsi tra le fresche frasche, andare sulle sponde del ruscello e bere due sorsate di acqua di sorgente con i suoi vicini di caverna durante il tramonto (in poche triviali parole non faceva un cazzo).

Madre natura aveva dotato la donna di un fisico all’apparenza aggraziato e fragile ma con un indomito spirito guerriero, una resistenza fisica imbattibile, un’intelligenza sopraffina, una voce che spesso usava come “oggetto contundente” verso l’uomo  e infine un’abilità  di stracciargli in modo irreversibile i maroni.

All’uomo, invece, aveva concesso un aspetto virile, muscoli scolpiti (essendo ancora lontani anni luce dallo stile di vita sedentario vigeva il trend pancia “a tartaruga”), voce profonda, un’intelligenza a tratti discutibile e con i geni più stronzi di tutta la galassia.

Un giorno l’uomo mosso da terribili crampi all’addome la cui natura gli era sconosciuta si trovò ad addentare il tronco di un albero. Dopo una masticata di corteccia capì con il movimento dei suoi neuroni, distribuiti in file disordinate, che la sua era fame. “Io mettere in bocca albero e poi stare meglio”. La donna che di crampi all’addome ne aveva in abbondanza e a intervalli regolari di dieci minuti capì che la sua non era fame ma un qualcosa di più celestiale e metafisico.

L’uomo dopo avere pregato gli dei per chiedere loro di proteggerlo da quel demone all’interno della caverna che si agitava per terra peggio di una tarantolata e che urlava più di Wanna Marchi nelle sue televendite, sentì d’un tratto una seconda voce più piccola di quella della donna ma altrettanto acuta e spacca timpani. Si avvicinò all’entrata e vide la donna tenere tra le braccia un uomo in miniatura.

Cominciò ad urlare e spaventato corse dai suoi vicini di caverna per chiedere aiuto.

Per fortuna le donne dei vicini andarono subito in soccorso della loro amica, ad ammirare il miracolo della vita, ma soprattutto a soddisfare la richiesta della donna: “qualcuna di voi mi può andare a recuperare quel deficiente?”

Così l’uomo una volta scoperto il prodigio della nascita decise di assumersi la piena responsabilità  di mantenere il piccolo essere dedicandosi mattina e sera a procurargli cibo anche se non riusciva a capire come mai se ne stesse attaccato alla tetta della donna rifiutando la sua cacciagione.

La totale assenza dell’uomo durante tutto il giorno spinse la donna a coniare il detto “di necessità  virtù” e dunque ad occuparsi della caverna, della raccolta della legna, del fuoco da accendere e dei pasti da preparare, delle cure del piccolo e di astenersi totalmente da lamentele sugli impegni che ogni giorno si trovava ad affrontare. Non sarebbero state in piedi a confronto di quelle dell’uomo che ogni volta se ne ritornava la sera trascinando per la coda un intero brontosauro!

L’uomo, dal canto suo, sentiva di avere un grosso peso sulle spalle dovendo affrontare ogni volta pericoli di varia entità  per riuscire a portare il cibo alla sua famiglia. Che poi ‘sti coscioni di stegosauro non venivano nemmeno apprezzati dal figlio. Da qui l’origine delle prime frustrazioni genitoriali del tipo:” fai tanto per i figli e loro ti smerdano appena possono”.

Dopo la caccia si divertiva a raccontare ai suoi simili le prodezze giornaliere e gustarsi la solita acqua di sorgente tra le prime patetiche battute sessiste.

Una volta tornato a casa l’uomo si faceva sempre la stessa domanda: ”ma la mia donna… ” ’zzo farà  tutto il giorno? Io mi faccio un mazzo così e rischio anche la buccia e lei? La saluto la mattina che prende il piccolo uomo e gli da mangiare la sua tetta e la ritrovo la sera che fa la stessa cosa. E poi si mostra pure stanca…”

Ecco ciò che è stato, che ancora è e che ci auguriamo non sarà…

di Deborah Papisca, tratto dal blog Oasidellemamme.it – 27 febbraio 2015 – rubrica Salute e Benessere

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Deborah Papisca è l’autrice di “Di materno avevo solo il latte”, uscito il 10 maggio 2011 con Dalai Editore. Con Enrica Costa, mamma blogger Milanese trapiantata in California, ha creato il blog Oasidellemamme.it dedicato a tutte le mamme del mondo (qui tutta la bio: http://www.oasidellemamme.it/chi-siamo/deborah-papisca/)