Aprile è un film di Nanni Moretti uscito nel 1998 ed è l’ottavo lungometraggio politico del regista, così perlomeno lo definisce Wikipedia.
Lo vidi nel 1998 in un cinema che da tempo non esiste più, lo vidi nella sala 2 di quel cinema, una sala con appena 70 posti, riservata per lo più a film cosiddetti d’essai, con una gran puzza di umido al retrogusto di fogna. Ma ne era valsa la pena, avevo riso moltissimo.
Gli anni successivi lo ricordai sempre come un film politico, sulle vicende successe appunto dalla vittoria di Berlusconi nel 1994 (“D’Alema dì qualcosa di sinistra… D’Alema dì qualcosa, qualsiasi cosa”) alle elezioni vinte dall’Ulivo nell’aprile del 1996, sulla discesa in campo di Berlusconi, sulla dichiarazione d’indipendenza della Padania, sul conflitto di interessi.
Lo vidi nuovamente nel 2010, col mio allora futuro marito e padre della mia bimba, lo presi nuovamente per un film politico, divertentissimo, su Berlusconi, la Padania, l’Ulivo etc…
L’ho rivisto qualche giorno fa e ho scoperto che, in realtà, Aprile è un film sulla paternità.
L’ho capito ora che ho una figlia di tre anni. Curioso come cambiare prospettiva sia in grado di rovesciare completamente la percezione di qualcosa che hai visto non una ma ben due volte. La cosa mi era totalmente sfuggita nel 1998, venticinquenne studentessa di ingegneria, single e alle soglie della partenza per l’erasmus. Ma in verità questo concetto mi era sfuggito anche nel 2010 a 37 anni…
Aprile è un film sulla paternità travestito da film politico perché la paternità è una cosa che ti capita quando stai girando un film su un pasticcere trotskista, abbandonato in favore di un documentario sulla situazione politica italiana, mai portato a termine, e infine mentre rifletti, ti arrabbi e inorridisci su quanto e come la discesa in campo di Berlusconi abbia influito sul modo di fare politica, con il suo potente arsenale mediatico a disposizione.
La paternità, come la maternità, capitano nel bel mezzo della tua vita già piena di affetti, di impegni professionali, di ansie, desideri, paure, amori, mentre sei in corsa verso il prossimo obiettivo. E se una donna vive con continuità il calendario delle 40 settimane con le trasformazioni del suo corpo, sempre in contatto con la sua creatura, un uomo quando diventa padre? Probabilmente, come suggerisce Moretti in una scena del film, nel momento in cui alza le braccia al cielo mentre si trova sul suo scooter in tangenziale, esultando in segno di vittoria ma anche di preghiera, declamando a gran voce le misure le figlio, finalmente presenza tangibile nella sua vita.
La paternità di Moretti, che come spesso accade nei suoi film è interprete e voce narrante, una volta nato Pietro diventa protagonista della narrazione, e i film che il regista sta girando e le vicende politiche del paese scivolano sullo sfondo. La paternità è inoltre l’unica certezza nel film, la trama sottostante a tutte le vicende, l’unica cosa portata realmente a termine; è prima l’attesa poi la nascita e infine i primi mesi di Pietro.
Si può dire che della paternità c’è tutto, in brevi siparietti, in pillole. Divertentissime, geniali, intrise di ansie, dubbi, perfettamente rappresentative delle più comuni paure e consapevoli nevrosi: la scelta del nome, forse l’unico momento in nove mesi in cui un uomo riesce a partecipare alla “costruzione” del figlio, tutte le ansie, o quantomeno la maggior parte, come la paura dei dolori del parto, delle notti in bianco, del suo pianto, di fargli male durante il bagnetto. La percezione che si tratti di un evento della vita che segna il passaggio verso l’età adulta. Ansia ma anche accoglienza del cambiamento: sarò costretto a crescere, a uscire da me stesso, racconta con entusiasmo il futuro padre.
A metà film nasce Pietro e lo spettatore viene a conoscenza dei dettagli del parto mentre il regista lo racconta a qualcuno dal telefono pubblico dell’ospedale, in un monologo che offre una prospettiva splendidamente adatta a tratteggiare la passività dell’uomo durante il parto e al contempo ne tratteggia la profonda emozione, il grande entusiasmo e la compartecipazione molto intima e sentita, che quasi mai viene rappresentata e raccontata, perlomeno non con tale efficacia e sensibilità.
C’è anche un importante accenno al sempre più attuale tema della conciliazione famiglia lavoro: Moretti tiene una riunione con i suoi collaboratori nella sala d’attesa dell’ospedale mentre la moglie sta partorendo. Successivamente interroga sua madre su come faceva ad allattarlo a richiesta dopo aver ripreso a lavorare, concludendo con sgomento “ah quindi piangevo”. Perché quando arriva un figlio, devi continuare a lavorare. Devi perché devi e perché vuoi, perché ne hai diritto, perché il lavoro può essere una dura necessità ma anche una passione e il naturale svolgersi della propria vita, anche in presenza di figli.
Lo dice molto bene Moretti tutto questo in Aprile, lo rappresenta in pillole, qualche dialogo, con il linguaggio del corpo, con la musica, lo dice forse in maniera apparentemente distratta, tanto da farlo passare come un film politico, ma lo dice molto efficacemente raccontando la sua attesa e il suo diventare padre, mentre naturalmente è occupato a fare altre cose. Perché, banalmente, la paternità è quello che ti succede quando sei impegnato a fare altro.

 

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Aline Nowé è nata a Cagliari nel 1973 da papà belga e mamma sarda, è laureata in Ingegneria Elettrica, con master in Project Management nelle Costruzioni, e ha lavorato come ingegnere fino al 2014, anno in cui è diventata mamma. Da allora si dedica con passione alla realizzazione di un prototipo di dispositivo interamente biodegradabile, atto alla trasformazione di materiali compostabili in biocarburante (altrimenti noto come Figlia) e a progettare servizi utili per i neo genitori. E’ cofondatrice dell’Associazione Pannolini Lavabili Sardegna.
Co-fondatrice de Il Club dei Genitori, segue le rubriche Pannolini Lavabili, Una mamma portatrice, Cine Club e L’insostenibile leggerezza di una mamma.